Le Isole Eolie sono famose, tra le tante cose, per l’intensa attività vulcanica che ha caratterizzato gli scenari suggestivi di queste sette perle. L’isola di Vulcano ha, dentro di sé, i resti un vulcano ormai inattivo da anni. Stromboli, nei tempi antichi venerata come una divinità (chiamato “Iddu”), incanta con tutta la sua potenza i numerosi turisti che accorrono da ogni parte del mondo per poter ammirare le sue maestose lingue di fuoco, che danzano nell’aria, eleganti e impetuose. Lipari, invece, racchiude all’interno del suo cuore, un vulcano spento che, nei secoli, ha modificato il paesaggio, lasciando i resti evidenti di violente eruzioni. Ed è proprio in questi scenari che vogliamo tuffarci, poiché a causa (o grazie) a quest’intensa attività vulcanica sono nate due tipi di pietre: la Pomice e l’Ossidiana. Una bianca, l’altra nera; una leggera, l’altra pesante; una smussata, l’altra affilata; una chiara e delicata, l’altra scura e attraente. Lipari è proprio così: queste rocce, aventi la stessa origine, rappresentano la duplice essenza dell’isola.
È difficile credere che il nero dell’Ossidiana e il bianco della pietra Pomice derivino dalla stessa tipologia di fenomeno. Mentre la prima deve il suo colore alla composizione basica del magma da cui è prodotta, la seconda è chiara perché è acida e nasce da eruzioni ricche di gas con un’evaporazione veloce che conferisce alla pietra pomice la sua caratteristica porosità. Se l’Ossidiana è la tipica roccia magmatica-vetrosa di origine effusiva, la Pomice appartiene a quella categoria di materiali eruttivi generati da un’attività effusiva-esplosiva: insomma, entrambe derivano dal raffreddamento e dalla successiva solidificazione della lava, ma sono totalmente diverse per consistenza e colore.
L’Ossidiana
Si tratta di un vetro vulcanico, molto ricercato nell’antichità per la fabbricazione di strumenti taglienti, prevalentemente lance e frecce, mentre gli antichi Egizi la usavano per realizzare scarabei e sigilli. Per millenni questa preziosissima pietra è stata una delle merci principali nel commercio del Mediterraneo e ha sostenuto la vita economica delle due isole siciliane. La sua formazione è dovuta al rapidissimo raffreddamento della lava che dà vita ad una roccia a consistenza vitrea traslucida di colore nero composta per il 75% da biossido di silicio.
Abitata sin dagli inizi del V millennio a.C., Lipari fu un grande centro di diffusione dell’ossidiana, e proprio la sua considerevole presenza in natura permise il fiorire di un’ intensa attività artigianale specializzata, testimoniata dall’abbondanza di scarti di lavorazione, recuperati presso il filone lavico della spiaggia della Papesca.
La Pomice
Nell′isola di Lipari l′ultima eruzione è stata attestata intorno al VI-VIII sec. d.C., quando una colata di ossidiana formò le Rocche Rosse e le bianche pomici lanciate dal cratere andarono a costruire il Monte Pilato. La pomice è una roccia ignea effusiva a pasta vitrea, molto leggera e vescicolata, generalmente di colore bianco e d′aspetto scoriaceo, formatasi durante violente eruzioni di tipo esplosivo. Nel corso di queste eruzioni, i gas vulcanici dissolti nella parte liquida del magma si espandono rapidamente e danno vita ad una sorta di schiuma la cui parte liquida, raffreddandosi e solidificandosi con altrettanta rapidità, assume un aspetto vetroso attorno alle bolle di gas. Tutti i tipi di magma (basalto, andesite, dacite e riolite) possono, in determinate condizioni (ovvero se vengono portati bruscamente a basse pressioni), portare alla formazione di materiale pomiceo; nonostante ciò, il termine pomice viene più soventemente associato ai magmi di tipo acido. Questi, infatti, contenendo elevate percentuali di silice ed essendo, di conseguenza, più viscosi, danno luogo più facilmente ad eruzioni di tipo esplosivo ed intrappolano più facilmente le bolle di gas. La pomice di Lipari si differenzia da materiale analogo di diversa provenienza grazie alla sua notevole quantità di silice (70% circa contro il 50-60% medio delle altre pomici) che, conferendole maggior durezza e maggiore resistenza agli agenti chimici, la rende particolarmente pregiata e pura. Dal punto di vista della struttura fisica, la pomice di Lipari può essere definita come una schiuma solida caratterizzata da un′elevatissima porosità (fino all′85%), la cui struttura a fori non comunicanti tra loro impedisce il passaggio dell′aria e l′assorbimento dell′acqua. Caratteristica peculiare del giacimento di pomice liparese è quella di essersi formato per effetto di un unico episodio eruttivo, il che conferisce particolare omogeneità alle caratteristiche fisico-meccaniche dei materiali di cui è composto.
L’estrazione della pomice e dell’ossidiana nell’isola di Lipari iniziò nel V millennio a.C., in corrispondenza dei primi insediamenti documentati, fenomeno che dava luogo ai primi timidi esempi di globalizzazione dei commerci, i minerali venivano esportati in tutto il Mediterraneo. La pomice trovava impiego nella abrasione di arpioni, ami da pesca, asce ecc., mentre l′ossidiana era destinata alla realizzazione di lame scheggiate, prodotto insostituito fino alla scoperta dei metalli. In epoca romana e successive la pomice fu usata anche come materiale leggero da costruzione.
L’estrazione e il commercio della Pomice
Il primo accenno ad un commercio della pomice di Lipari è del 18 maggio 1276. Carlo d’Angiò autorizza il vescovo ad esportare e commerciare oltre allo zolfo ed l’allume anche la pomice (lapides”). Tuttavia, le prime documentazioni connesse allo sfruttamento delle cave di pomice risalgono alla fine del XVI secolo, periodo nel quale si assistette ad una progressiva espansione degli insediamenti, in particolare di quello di Canneto, nel quale dalla seconda metà del XVII secolo si organizzarono piccoli commerci dediti all’esportazione della pomice, principalmente destinati a Toscana, Campania e alla città di Marsiglia. Dal XVIII secolo le possibilità commerciali offerte dall’utilizzazione dei giacimenti attrasse numerosi commercianti francesi, fenomeno che fece crescere l′esportazione della pomice fino a quote di 700 tonnellate annue.
Deodat De Dolomieu nel 1781 definì l′isola di Lipari “l′immenso magazzino che fornisce la pomice a tutta l′Europa“, anche se all’epoca l’attività estrattiva era ancora poco organizzata e l’economia isolana era basata fondamentalmente sull’agricoltura, famosissimi erano i vini di malvasia e di uva passa, così come i capperi e i fichi secchi.
Un vero e proprio sfruttamento industriale si ebbe dal 1825, quando il marchese Vito Nunziante, già titolare di una concessione per le miniere di zolfo, allume e acido borico a Vulcano, ricevette anche l′autorizzazione allo sfruttamento esclusivo delle cave di pomice di Lipari, in breve il prodotto fu esportato fino in Inghilterra, Stati Uniti e Russia. Nel 1835 il Decurionato liparese impose il pagamento di un dazio sull′escavazione della pomice, provvedimento che fu ufficialmente approvato nel 1855, con atto del Ministro Cassisi della Real Segreteria di Stato. Il dazio consisteva in una tassa equivalente a 0,06 lire per ogni quintale di pomice bianca destinata al commercio. Bisogna dire, però, che all’inizio, lo sfruttamento delle terre pomicifere era a carattere artigianale e la pomice veniva acquistata in conto proprio dagli stessi capitani dei velieri che provvedevano poi a rivenderla nei vari porti dell’Italia e della Francia, solo nel 1880 assumerà una fisionomia industriale.
Il primo passo in questa direzione si ha quando giungono i rappresentanti di società straniere che prima si limitarono ad acquistare il prodotto, poi cominciarono a selezionarlo e lavorarlo nei mulini che fanno costruire a Lipari, Canneto, Porticello e ad Acquacalda.
Il precursore in questo campo è il francese monsieur Leonard Bacot. Egli, il 2 settembre 1865, sposa a Pirrera Angelina Restuccia ed il 24 maggio 1867 rivolge una petizione al Sindaco per chiedere una porzione di demani comunali in contrada rocche Pirrera e la esenzione del dazio sulla polvere di pietra pomice che viene manufatta ed esportata all’estero. Il Consiglio Comunale respinge le due richieste . La prima perché i demani comunali o sono dati in enfiteusi o sono gravati da usi civici e quindi sono di libero accesso a tutti i cittadini e rappresentano una fonte di sostegno per numerose famiglie. La concessione quindi per molti liparesi rappresenterebbe un danno. Inoltre l’esenzione dal dazio danneggerebbe le entrate comunali.
L′Amministrazione della riscossione del dazio fu appaltata a privati, al fine di risolvere il cronico problema delle evasioni, anche all’epoca fortemente radicato, il servizio così “esternalizzato”, come diremmo oggi, non aumentò le entrate, poiché gli evasori erano più furbi degli esattori. Nel 1884 fu redatto un vero e proprio Regolamento per la riscossione del diritto di percezione sulla pietra pomice che si estrae dalle cave dei demani comunali. Nello stesso anno l’escavazione fu affidata, con asta pubblica, a Gabriele Barthe contro il pagamento di 100.000 lire annue. La ditta Barthe non riuscì tuttavia ad entrare in possesso dei giacimenti illegalmente coltivati da altri, e, impotente ad esercitare pienamente il suo diritto citò in giudizio il Comune di Lipari, il quale non riuscendo a dimostrare il proprio diritto a concedere lo sfruttamento fu costretto ad annullare il contratto con il Barthe. Ancora, nel 1888 il monopolio per l′escavazione fu concesso alla Società L′Eolia, e nuovamente si verificarono le solite controversie con coloro i quali si attribuivano un diritto di scavare e commerciare. Un Decreto Reale del gennaio 1889 attribuì al Comune il pieno diritto di concedere in locazione i terreni demaniali, i cui confini però non furono precisamente delimitati. Anche la società Eolia citò in giudizio il Comune per chiedere una riduzione del canone d′affitto, il Comune vinse la controversia giudiziale e nel 1892 la Società Eolia fu posta in liquidazione.
La Legge n. 10 del 5 gennaio 1908 ridefinì la materia delle tasse comunali sull′estrazione della pomice, il Comune mantenne il diritto di esigere il dazio, fu introdotta una tassa di licenza da pagarsi mensilmente dal “capo grotta” per ogni cavatore che lavorava sotto di lui, fu prevista la figura di un direttore tecnico minerario, responsabile anche nelle cave private, fu introdotta una assicurazione contro gli infortuni, gli operai dovevano essere nativi dell′arcipelago, fu redatta la mappatura delle terre pomicifere e fu introdotto un registro di tutte le cave. La violazione di queste avrebbe comportato il sequestro del materiale e una sanzione fino a 100 lire.
Tra il 1911 e il 1921 il Comune di Lipari gestì una impegnativa contesa giudiziaria con il vescovo di Lipari, Monsignor Angelo Paino, il quale rivendicava la proprietà dei terreni pomiciferi, sulla base di un diploma del 1088, concesso dal Conte Ruggero il Normanno all′Abate Ambrogio, con il quale si decretava il Monastero di San Bartolomeo proprietario dei territori delle isole Eolie. Il Comune difese con successo le sue spettanze producendo un diploma del 1134, il quale dimostrava che erano state donate alla Chiesa solamente le terre nullius, implicitamente, e non anche le proprietà private e gli usi civici delle terre comuni.
La crisi economica mondiale del 1929 colpì pesantemente il commercio della pomice. Un nuovo pericolo per i commerci isolani si profilò nel 1935, quando gli industriali eoliani, Vincenzo D′Ambra e Francesco Carbone, insieme all′ing. Antonio Lamaro di Roma si interessarono allo sfruttamento della pomice dell’isola greca di Yali, che essendo di maggiore purezza avrebbe letteralmente azzerato l’esportazione della pomice di Lipari, anche perché, i costi di produzione sarebbero stati inferiori, per l′assenza della tassa d′escavazione, per le minori spese d′imbarco e per i minori costi della mano d’opera. Solo gli eventi bellici della Seconda Guerra Mondiale impedirono l′impresa, seppure si verificò comunque un repentino declino del mercato della pomice proprio in relazione alla guerra, dal quale il settore si risollevò solo dopo il 1950, principalmente per merito di una maggiore meccanizzata dell’attività estrattiva.
Tuttavia la eccessiva parcellizzazione delle cave risultò un punto critico del settore, si contavano circa 40 coltivazioni, condotte da modeste aziende individuali o da singoli cavatori, tra le più importanti la ditta Saltalamacchia-Dietrich di Acquacalda, poi l′Italpomice, la società Eolpomice, la ditta G.Restuccia & Co., poi Pumex S.p.A., la ditta Th. Ferlazzo, la ditta Angelo D′Ambra e la Cooperativa San Cristoforo di Canneto.
Dal 1968 la Pumex S.p.A., costituitasi nel 1958 da una fusione, acquisì gradualmente tutte le altre attività d′estrazione e commercio della pomice, razionalizzazione che permise migliori performance industriali, nei primi tre anni l′esportazione passò dalle 487.000 a 596.000 tonnellate. Insieme alla Pumex continuarono l’attività industriale Italpomice di Acquacalda e la Cooperativa S.Cristoforo di Canneto quest’ultima si occupava unicamente del settore produttivo e proseguì la sua attività fino alla seconda metà degli anni ′80. Successivamente non fu rinnovata la concessione, da parte del Comune, poiché quest’ultimo voleva che andasse avanti un progetto di qualificazione e riconversione dell’area, di cui ancora oggi si parla ma non è mai partito nulla.
Fonte: Archivio Storico Eoliano – ArcheologiaIndustriale.org